


Era il dicembre del 1977 quando nelle sale americane usciva La febbre del sabato sera, contagiando nel giro di pochi giorni una marea di spettatori di ogni età. Il termometro del gradimento continuò a salire anche nelle settimane successive, al punto che il film diretto da John Badham rimase in programmazione per mesi e mesi. Di lì a poco, come un’epidemia inarrestabile, la febbre Tony Manero si diffuse in tutto il mondo. La disco-music e le camicie di poliestere, le piste da ballo luccicanti e il Ponte di Verrazzano, i pantaloni a zampa di elefante e le strepitose canzoni dei Bee Gees: tutto dannatamente cool per non entrare immediatamente nella storia del cinema dalla porta principale.
Rivedere La febbre del sabato sera oggi fa sentire brividi di nostalgia, ma al tempo stesso consente di cogliere i molti aspetti che lo rendono ancora attuale, mettendo così in risalto lo spessore di una pellicola intramontabile. Ambientato a Bay Ridge, quartiere di Brooklyn dove la terra promessa Manhattan sembra un miraggio, il film di Badham ha per protagonisti un gruppo di ragazzi che vivono la propria vita in attesa del sabato sera in discoteca, luogo magico dove per alcune ore possono lasciarsi alle spalle emarginazione e frustrazioni, e sognare un futuro diverso. Il regista di Wargames dipinge quest’universo con l’acume di un antropologo: razzismo, maschilismo e gioventù senza un domani sono i temi delicati di un film in cui è impossibile non rivedere molto del nostro presente.
Ma tornando al mito, è indispensabile spendere due parole su John Travolta. Tony Manero, il giovanotto con la camminata da macho e lo sguardo impertinente, che si veste davanti allo specchio come espletasse un rito sacro e in pista balla che è una delizia, è una delle più amate icone del cinema del 20° Secolo, ed il merito è di quest’attore talentuoso che all’epoca, pensate, aveva poco più di vent’anni. Travolta lavorò duramente per nove mesi con il coreografo Lester Wilson, e durante la lavorazione del film ebbe l’estro di improvvisare battute e scene diventate di culto: la ricompensa fu un’insperata nomination all’Oscar, ma soprattutto l’immortalità cinematografica.


