


È un Oliver Stone in grande forma quello di Snowden, ventesimo film da lui diretto in poco più di quarant’anni. Il regista di JFK si è cimentato in vari generi nel corso della sua carriera, con risultati molto altalenanti, ma quando al centro di un suo film c’è la politica, è assolutamente una garanzia.
La storia di Edward Snowden sembra nata per il suo cinema. Giovane genio dell’informatica con un passato nell’esercito, Snowden entra prima nella CIA e poi nell’NSA (National Security Agency), che abbandona nel 2013 dopo anni di tormenti interiori: ha scoperto che il suo governo non spia soltanto nemici e potenziali terroristi, ma qualsiasi normale cittadino americano attraverso straordinari programmi segreti di sorveglianza. Edward informa così i giornalisti del Guardian e la documentarista Laura Poitras, rinunciando per sempre alla sua libertà.
Stone racconta una vicenda complessa e intricata senza risultare mai incomprensibile, tenendo alti ritmo e tensione per tutte le due ore e un quarto di durata, e potendo contare anche su un grande Joseph Gordon-Levitt, capace di un eccellente lavoro di introspezione. Il processo di cambiamento interiore di Snowden, che da giovane innamorato della sua patria e convinto sostenitore del suo governo, si ritrova ad essere un uomo disilluso nei confronti del sistema, ricorda quello di un altro personaggio importante di Stone, il Ron Kovic/Tom Cruise di Nato il quattro luglio (1989).
Avrebbe meritato un’attenzione maggiore da parte del pubblico Snowden. Probabilmente molti spettatori hanno desistito dalla visione perché spaventati dalla materia che viene trattata. Ed è un vero peccato, perché l’ultima fatica di Stone è un film necessario, che parla di tutti noi e dell’inquietante mondo orwelliano in cui siamo, più o meno inconsapevolmente, imprigionati.


