


È servita quasi un’intera vita a Roman Polanski per elaborare la sua esperienza di bambino ebreo nella Polonia occupata dai nazisti e trasformarla in cinema. All’inizio degli anni Novanta aveva persino rifiutato di dirigere quello che poi è diventato il capolavoro di Steven Spielberg, Schindler’s List, perché non si sentiva ancora pronto.
È stata la storia di Wladyslaw Szpilman, pianista polacco sopravvissuto miracolosamente nel ghetto di Varsavia, a convincere Polanski ad affrontare la Shoah e i suoi ricordi. Il risultato finale del suo lavoro è sfociato ne Il pianista, uno dei film più particolari realizzati sull’Olocausto. Il modo in cui la macchina da presa si muove tra i volti attoniti dei deportati, i corpi trucidati senza pietà, le madri che piangono con strazio i loro bimbi perduti, hanno il sapore dello sguardo di chi la tragedia l’ha vista, l’ha vissuta sulla propria pelle. È tutto così vero, senza la minima ombra di retorica o di consolazione, che per lo spettatore è davvero difficile tirare il fiato.
Il solo messaggio di speranza è tutto racchiuso nella toccante sequenza dell’incontro tra Szpilman e l’ufficiale tedesco che gli salva la vita. Due uomini che appartengono a due mondi così lontani, quello delle vittime e quello dei carnefici, si ritrovano uniti in nome della musica, una delle arti che elevano l’uomo nobilitandone l’animo. La musica ha salvato Szpilman non solo dalla morte fisica, ma anche da quella interiore, a differenza della maggior parte dei sopravvissuti: un dramma che Polanski ha conosciuto bene e che ha saputo tradurre, magistralmente, sul grande schermo.


