QUEL BORGHESE PICCOLO PICCOLO DEL GRANDE ALBERTO SORDI

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Gli anni Settanta sono l’epoca in cui sullo schermo a stelle e strisce iniziano a giganteggiare i vendicatori solitari, i cittadini delusi dal sistema che decidono di fare tutto da soli. È l’epoca dell’Ispettore Callaghan, del Giustiziere della notte, di Taxi Driver. La risposta italiana non tarda ad arrivare.
Nel 1977 Mario Monicelli porta sullo schermo il romanzo di Vincenzo Cerami Un borghese piccolo piccolo. Un impiegato ministeriale vede ucciso il figlio sotto i suoi occhi, per caso, durante una rapina. Le forze dell’ordine e la magistratura non danno affidabilità, pensa il povero genitore, che partorisce un pensiero agghiacciante: la vendetta personale. E la vendetta si consuma, terribile, a fuoco lento.
Se Monicelli ha costruito le atmosfere del mondo piccolo borghese con il suo solito straordinario acume (vedasi per esempio la scena del risveglio della città prima dell’evento fatale, in cui si respira intorno ai protagonisti l’aria incombente della tragedia), Alberto Sordi invece sorprende e spiazza totalmente. Per metà film è il solito Albertone, con la sua simpatia, il suo sorriso, la sua romanità verace. Poi il dramma gli fa fare a pezzi quella maschera che aveva divertito sempre tutti, in cui l’italiano medio si identificava, per lasciare spazio al mostro. Una trasformazione disturbante per lo spettatore, ma realistica, perché partorita dal dolore immane di un figlio strappato nel modo più feroce. Una trasformazione che solo un grande attore poteva generare.

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