


Nell’aprile del 1986, Giuseppe Ferrara con la troupe e gli attori si reca in Fani. Sta per girare una scena cruciale de Il caso Moro, quella del sequestro dello statista democristiano e della strage della sua scorta. Molte persone che hanno assistito al tragico evento otto anni prima, abitano ancora lì. Quando arriva Gian Maria Volontè restano di stucco. Qualcuno mormora: “Fa impressione, sembra proprio Moro”. Maria Pia Fusco, sulle pagine de La Repubblica, racconta di un attore chiuso nel silenzio per non uscire dalla concentrazione, che si fa vestire dal sarto del compianto Onorevole per restare incollato al personaggio.
Dopo tante grandi interpretazioni e una carriera senza sbavature, Volontè riesce a fare un autentico miracolo. Ha fatto entrare Moro nel suo corpo, nel suo volto precocemente invecchiato, persino nelle sue corde vocali. Non è un’interpretazione, è una resurrezione. Il caso Moro è un film dallo stile asciutto e dal ritmo serrato, che punta alla ricostruzione storica usando tutti gli elementi a sua disposizione. Ma non sarebbe lo stesso senza quell’incredibile performance, che ne innalza il livello in maniera vertiginosa.
E ripensando a Todo modo (1976) di Elio Petri, in cui Volonté si è preso gioco ferocemente di Moro, sembra quasi che nel film di Ferrara l’immenso Gian Maria abbia voluto riscattarsi nei confronti di quell’uomo che, con il suo martirio, ha dato inizio alla fine della piaga Brigate Rosse.


