


Quando tre anni fa Pete Postlethwaite ci lasciò, Steven Spielberg disse che era morto “il miglior attore al mondo”. Tanti restarono perplessi da quella dichiarazione che pareva esagerata. In realtà, il buon Steven voleva semplicemente sottolineare che se n’era andato un attore considerato da tutti un ottimo caratterista, ma che invece era molto di più. Vedere Nel nome del padre (di Jim Sheridan, 1993) per credere, dove duetta senza mai soccombere con un certo Daniel Day-Lewis, uno che ci ha messo pochi anni ad entrare nell’olimpo dei migliori di sempre.
Nel nome del padre ha il merito di far conoscere una pagina importante di Storia (quella di quattro ragazzi creduti terroristi dell’IRA e tenuti ingiustamente in carcere per quindici anni), ma resta fondamentalmente nel cuore perché è una delle opere cinematografiche più riuscite nella descrizione del rapporto padre-figlio.
Da un lato Postlethwaite sempre sornione, sotto le righe, dall’altro Day-Lewis mattatore con la sua recitazione nervosa e vibrante, insegnano che a volte un sentimento d’amore filiale sembra sepolto sotto terra, invece è semplicemente messo da parte in qualche anfratto dell’anima. E nella situazione più angosciosa di vita, improvvisamente, lo si può ritrovare, per poi diventare più forte ed ardente di un tempo.


