


“Non penserai che sono pazzo quando, dal prossimo mese, la gente comincerà a morire. All’inizio la prenderanno per una strana febbre, poi capiranno, si renderanno conto…”.
Non c’è dubbio che le parole apocalittiche pronunciate dal protagonista de L’esercito delle 12 scimmie James Cole facciano un certo effetto in questi giorni incerti e drammatici del Coronavirus. Ma al di là delle inquietanti suggestioni suscitate dal nostro attuale vissuto, ci sono molte e ben più importanti ragioni per cui (ri)vedere la pellicola di Terry Gilliam, che a fine anno compirà venticinque anni. Uscita nelle sale statunitensi nel dicembre 1995, quest’opera continua ad essere un flusso magmatico di emozioni, suspense e mistero a cui è impossibile sottrarsi, anche se si conoscono nel dettaglio risvolti e colpi di scena.
La storia, ispirata al celebre cortometraggio fotografico La jetée di Chris Marker, prende il via nell’anno 2035, in un mondo ormai ridotto a una landa grigia e abitata esclusivamente dagli animali. Tre decenni prima, un virus ha spazzato via l’umanità e i pochi superstiti sono costretti a vivere sottoterra per sfuggire al contagio. L’ultima possibilità di riconquistare il pianeta è nelle mani di James Cole, un detenuto mandato indietro nel tempo per comprendere le origini dell’epidemia.
La bellezza seducente del film ha molte facce, e da ognuna di esse traspare il multiforme ingegno di Gilliam: il ritratto di un decadente futuro distopico e quello del passato segnato da un destino ineluttabile, l’andirivieni spazio-temporale di Cole e le riflessioni trasversali sull’uomo moderno, il toccante omaggio hitchcockiano che si manifesta nella parte conclusiva del racconto. Ma a rapire il cuore, in particolare, è l’accurata descrizione della psicologia e dei sentimenti dei protagonisti. L’esplorazione reiterata del sogno/ricordo di Cole o la scena in cui lo stesso Cole riascolta commosso la musica del ventesimo secolo sono istanti di cinema fiammanti che si abbarbicano all’anima dello spettatore, sottolineando la profondità di questo sci-fi cupo e appassionante.
Al disegno visionario di Gilliam giova poi l’istrionismo di Brad Pitt nelle vesti di un ambientalista schizofrenico e, ancor di più, la chimica tra la bella Madeleine Stowe e un Bruce Willis al suo meglio. La tormentata malinconia di Cole attraversa tutto il film e palesa quanto il talento drammatico dell’attore americano non sia mai stato abbastanza celebrato.


