


Ci sono amori folli e disperati che non ne vogliono sapere di morire. Puoi seppellirli sotto un cumulo di rabbia e di rancori, inutilmente. Puoi sottoporli allo strappo doloroso della separazione, alla scure del tempo che passa, per poi accorgerti che tutto è stato vano.
Ne sanno qualcosa Bernard e Mathilde, i protagonisti de La signora della porta accanto (1981) di François Truffaut, che si ritrovano casualmente vicini di casa otto anni dopo la fine di una relazione appassionata, travolgente, insana. Entrambi sono felicemente sposati. O almeno credono di esserlo. Perché il destino ha teso loro una trappola da cui non avranno la forza di uscire.
Pochi autori hanno saputo raccontare l’amour fou come Truffaut. Lo dimostra questa pellicola senza rughe, ancora fresca e palpitante dopo quarant’anni. Un melodramma essenziale, privo di orpelli, in cui il maestro francese seziona con precisione chirurgica le conseguenze dell’amore malato. Amore come ossessione, che divora e lascia segni profondi tanto nell’anima quanto sul corpo. E può colpire chiunque. Persino la signora Jouve, narratrice della storia e personaggio di pacata razionalità, lo ha sperimentato in gioventù, quando una passione fatale le lasciò in dote una grande sofferenza e una protesi alla gamba destra.
La struttura circolare del film aumenta il senso incombente di ineluttabilità, il destino è una morsa che cinge i due amanti. La replica della love story vissuta otto anni prima da Bernard e Mathilde è ancora più devastante. Eros riesplode come una fiamma feroce, fino a tingersi di nero.
A far respirare allo spettatore ogni afflato del loro mal d’amore ci pensano Fanny Ardant e Gérard Depardieu, così affascinanti e autentici da attraversare lo schermo. Ogni emozione che balena sul volto o negli occhi di entrambi, graffia. Finanche i silenzi parlano. E quel gesto estremo finale, grazie a loro, diventa incarnazione dell’ovidiano “Né con te, né senza di te”.


