


Da quando La grande bellezza di Paolo Sorrentino ha fatto irruzione nella nostra esistenza, tanti di noi sono entrati fulmineamente in simbiosi con il suo protagonista, lo scrittore e giornalista – nonché “re dei mondani” – Jep Gambardella, interpretato da un gigantesco Toni Servillo.
L’umorismo tagliente, il cinismo, la disillusione di Jep, come pure la sua morbida nostalgia e i lampi di stupore di fronte agli “sparuti incostanti sprazzi di bellezza”, hanno cominciato a scorrere dentro di noi come un flusso naturale e inarrestabile. Gambardella si è abbarbicato al nostro immaginario soprattutto attraverso le parole, ora acute, ora sferzanti, ora malinconicamente dolci, con le quali ha fotografato delizie e squallori della vita e dei nostri tempi.
Ecco dieci citazioni che racchiudono tutta la filosofia di Jep, un vero e proprio prontuario di battute da tenere sempre a portata di lingua, di penna o di tastiera.
La bellezza di essere sensibili…
“A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: «La fessa». Io, invece, rispondevo: «L’odore delle case dei vecchi». La domanda era: «Che cosa ti piace di più veramente nella vita?». Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella”.
…e la tristezza di essere bravi
“È così triste essere bravi: si rischia di diventare abili”.
L’irresistibile fascino della mondanità
“Quando sono arrivato a Roma, a ventisei anni, sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che potrebbe essere definito il vortice della mondanità. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani, e ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.
Le scoperte, quelle consistenti
“La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni, è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”.
Il riso, metafora di vita
“Il riso scaldato è sempre più buono di quello che hai appena cucinato”.
Un popolo di egocentrici
“Ormai siamo un popolo di intervistati. Ma non li senti? «Come dico sempre…». Come dico sempre a chi?”.
Lezione alla “donna con le palle” (e alla casta dei radical-chic)
“Su donna con le palle crollerebbe qualsiasi gentiluomo… Stefa’ l’hai voluto tu, eh? In ordine sparso… La tua vocazione civile ai tempi dell’università non se la ricorda nessuno. Molti, invece, ricordano personalmente un’altra tua vocazione che si esprimeva a quei tempi, ma si consumava nei bagni dell’università. La storia ufficiale del partito l’hai scritta perché per anni sei stata l’amante del capo del partito. I tuoi undici romanzi pubblicati da una piccola casa editrice foraggiata dal partito, recensiti da piccoli giornali vicini al partito, sono romanzi irrilevanti, lo dicono tutti. Questo non toglie che anche il mio romanzetto giovanile fosse irrilevante, su questo ti do ragione. La tua storia con Eusebio… Ma quale? Eusebio è innamorato di Giordano, lo sanno tutti… Da anni pranzano tutti i giorni da Arnaldo, al Pantheon, sotto all’attaccapanni, come due innamoratini sotto alla quercia. Lo sanno tutti e fate finta di nulla. L’educazione dei figli che tu condurresti con sacrificio minuto per minuto: lavori tutta la settimana in televisione, esci tutte le sere, pure il lunedì, quando non si manifestano neppure gli spacciatori di popper. I tuoi figli stanno sempre senza di te, pure durante le vacanze, lunghe, che ti concedi. Poi, hai per la precisione un maggiordomo, un cameriere, un cuoco, un autista che accompagna i ragazzi a scuola, tre baby-sitter. Ma insomma… Come e quando si manifesta il tuo sacrificio? Queste sono le tue menzogne e le tue fragilità. Stefa’, madre e donna, hai cinquantatré anni e una vita devastata, come tutti noi. Allora, invece di farci la morale, di guardarci con antipatia, dovresti guardarci con affetto… Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro… O no?”.
Galateo del funerale
“Molti pensano che un funerale sia un evento casuale, privo di regole. Non è così. Il funerale è l’appuntamento mondano par excellence. A un funerale, non bisogna mai dimenticarlo, si va in scena. Con pazienza, si attende che i parenti si liberino dalla calca. E, una volta accertatisi che tutta la platea si sia seduta, solo allora si possono fare le condoglianze. In questa maniera tutti ti possono vedere. Si prendono le mani del sofferente, si avvolgono le proprie sulle sue braccia. Si sussurra qualcosa all’orecchio, una frase sicura, detta con autorevolezza. Per esempio: «Nei prossimi giorni, quando ci sarà il vuoto, sappi che puoi contare sempre su di me». Il pubblico si chiederà: «Ma che sta dicenne Jep Gambardella?». È permesso raccogliersi in un angolo da soli, come a meditare sul proprio dolore. A questo punto, però, è richiesta un’ulteriore abilità. Il luogo scelto deve essere allo stesso tempo isolato, ma ben visibile al pubblico. Inoltre, una buona recita è tale quando è scevra da qualsiasi ridondanza. Dunque è regola fondamentale: ad un funerale non bisogna mai piangere, perché non bisogna rubare la scena al dolore dei parenti. Questo non è consentito… perché immorale”.
Il niente intorno a noi
“Sono anni che tutti mi chiedono perché non torno a scrivere un nuovo romanzo. Ma guarda ’sta gente, ’sta fauna… Questa è la mia vita, non è niente. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente, non c’è riuscito. Ci posso riuscire io?”
La vita e la morte
“Finisce sempre così, con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla bla bla bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco”.


