KEN LOACH, IL CINEMA PER GLI ULTIMI

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Tra le cose che resteranno del 2016 di cinema che sta volgendo ormai al termine, è impossibile non considerare il grande, travolgente ritorno di Ken Loach. Già, perché l’ottantenne regista di Nuneaton un paio d’anni fa, dopo una lunga e gloriosa carriera, aveva detto basta, annunciando il ritiro. “Ma possibile che uno come lui possa andare in pensione?”, si erano chiesti i suoi estimatori. Il dietrofront, in effetti, era appena dietro l’angolo. Troppa la voglia, troppa la necessità di raccontare ancora una volta gli ultimi e, in particolare, quella classe operaia britannica calpestata e dimenticata dal suo governo.
Così è venuta alla luce, con il supporto del fido sceneggiatore Paul Laverty, una nuova creatura per smuovere le coscienze. Il protagonista della storia è Daniel, onesto e generoso falegname di Newcastle malato di cuore, che non riesce ad ottenere l’indennità per malattia. L’assurdità della burocrazia, supportata da impiegati cinici ed indifferenti, lo schiaccia, lo umilia e prova a spegnerlo servendosi di tutto, persino di “mostri” sconosciuti che si chiamano internet, computer e mouse. Non gli resta che la solidarietà di chi è nella sua stessa condizione, come la giovane e sfortunata Daisy, mamma single di due bambini, altra vittima inghiottita dal sistema.
Io, Daniel Blake ha toccato il cuore di tutti, a cominciare dalla giuria dell’ultimo Festival di Cannes, che gli ha assegnato la Palma d’Oro. E poco importa se qualcuno ha storto il naso per questo riconoscimento. Il film di Loach emoziona, commuove, fa indignare e ci riesce con la forza della semplicità e dell’onestà, e con quel pizzico d’ironia che non guasta. Il cinema di Ken è senza fronzoli, sincero, mai ricattatorio nemmeno per un secondo. La scena da antologia di Daisy al banco alimentare, cruda e straziante, ne è la dimostrazione palese.
Con il suo finale amarissimo, Io, Daniel Blake si trasforma in un grido di rabbia contro l’ingiustizia che scuote l’anima dello spettatore, ma senza volergli strozzare la speranza. Perché “un altro mondo è possibile, ma soprattutto è necessario”. Firmato Ken Loach.

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