


Il campione di football americano Joe Pendleton muore in un incidente stradale e si ritrova in una stazione di transito dell’aldilà, dove lo attende un aereo in partenza per la sua destinazione finale. Il biancore delle nuvole che avvolge lo spazio intorno a lui rende l’atmosfera onirica, ma non si tratta di un sogno. Joe insiste che non dovrebbe essere lì, e infatti si scopre che il suo angelo, per evitargli sofferenze, lo ha prelevato prima dell’impatto, disattendendo la regola dell’esito ultimo. Il suo corpo però è stato cremato e, per tornare sulla terra, deve affidarsi all’abile “funzionario” Mr. Jordan.
Poche scene hanno stimolato la mia fantasia di bambino come questa dell’incipit de Il paradiso può attendere (1978), una delle commedie americane predilette della mia infanzia. Merito del tocco magico di Warren Beatty, uomo di cinema a tutto tondo, capace di conquistare con questa pellicola quattro nomination personali all’Oscar (come produttore, regista, sceneggiatore e attore), impresa addirittura ripetuta tre anni dopo con Reds (1981).
Tratto dalla commedia teatrale di Harry Segall Halfway to Heaven – che già aveva avuto una trasposizione sul grande schermo, L’inafferrabile signor Jordan (1941) di Alexander Hall – Il paradiso può attendere riesce a fondere con risultati sorprendenti favola e ironia, sport e romanticismo, anche grazie all’intensità di grandissimi come James Mason e Julie Christie, alla verve comica di Charles Grodin e Dyan Cannon, alla finezza interpretativa dei caratteristi Jack Warden e Vincent Gardenia.
Un film delizioso quello del neo ottantenne Beatty che, anche dopo tante visioni, diverte, incanta, emoziona e regala novanta minuti leggeri come le nuvolette di una stazione di transito del Paradiso.


