


“Io credo nell’America. L’America fece la mia fortuna. E io criscivo a mia figghia come n’americana, e ci detti libertà, ma ci insegnavo pure a non disonorare la famigghia”. Le parole di Amerigo Bonasera, l’impresario di pompe funebri che confessa il suo dramma familiare a don Vito Corleone, risuonano vibranti. Intorno a lui soltanto oscurità e silenzio. L’incipit de Il padrino è un vortice che risucchia lo spettatore in un mondo tenebroso e segreto, in un congegno cinematografico ipnotico e sorprendente ad ogni visione.
Quella che si dipana nelle successive tre ore è un’opera così mirabile e perfetta da farti stentare a credere che sia potuta nascere in un clima di totale difficoltà, ostilità e incertezza. Concepito come un film a budget contenuto dall’omonimo best seller di Mario Puzo, Il padrino fece una fatica enorme già a trovare un regista. Venne proposto dalla Paramount al semisconosciuto Francis Ford Coppola solo in seguito a una serie di rifiuti (tra cui quello di Sergio Leone), e senza troppa convinzione.
Nemmeno il tempo di stringersi la mano e fu subito scontro sul cast. Per la parte di don Vito la produzione avrebbe voluto uno tra Ernest Borgnine, Edward G. Robinson, Orson Welles, George C. Scott e Gian Maria Volonté, ma Coppola riuscì ad imporre l’unico candidato indesiderato, ovvero Marlon Brando, all’epoca in fase calante e inviso a tutti per le sue note intemperanze. E battaglia fu anche per gli altri ruoli, in particolare per quello di Michael. Al Pacino era malvisto dalla Paramount per un provino disastroso, la scarsa esperienza e… la sua bassa statura! Coppola la spuntò di nuovo, per poi rischiare il licenziamento dopo i primi ciak, finché i produttori non videro la straordinaria scena dell’omicidio di Sollozzo e del capitano McCluskey.
Nel frattempo, il boss della mala newyorkese Joseph Colombo si presentò dal produttore esecutivo Albert S. Ruddy con atteggiamenti tutt’altro che rassicuranti. Avrete fatto caso che nel film non vengono mai pronunciate le parole “mafia” o “cosa nostra”: pare sia il frutto di un compromesso raggiunto dopo quella visita di “cortesia”.
Le riprese, intanto, proseguivano sotto la scure delle ristrettezze economiche, che obbligarono Coppola a girare molte sequenze in fretta con due cineprese. La scena della morte di don Vito venne improvvisata durante una pausa pranzo, l’iconica conversazione tra Michael e suo padre fu aggiunta solo quando ci si rese conto che mancava un confronto diretto tra i due protagonisti.
Dopo tanti patimenti, né Coppola né la Paramount avrebbero scommesso un soldo bucato sul probabile successo. E, invece, arrivò il trionfo. Uscito nel marzo 1972, Il padrino incassò circa 250 milioni di dollari a fronte dei 6,5 spesi, oltre a fare incetta di premi e di recensioni roboanti. Il gangster movie tradizionale era ormai superato, aveva lasciato spazio a un inedito e stratificato affresco sulla “famiglia” e sull’America, alla storia shakespeariana di un re e dei suoi figli cadenzata dal valzer di Nino Rota e dalle monumentali prove dei suoi interpreti.
Francis Coppola aveva saputo tirare fuori il meglio da se stesso e da chi lo circondava tenendo duro in un mare di peripezie. Conscio, evidentemente, che il destino gli aveva fatto un’offerta che non poteva rifiutare.


