


Un uomo tranquillo, che vive in una cittadina americana con moglie e figli, uccide con stupefacente freddezza due balordi rapinatori all’assalto del suo locale. Gli amici e i familiari restano attoniti, mentre l’opinione pubblica ne fa subito un eroe. Qualche giorno dopo, nello stesso locale, si presenta un uomo con il volto deturpato da una vistosa cicatrice e comincia a chiamarlo insistentemente con un altro nome.
L’incipit di A History of Violence è di quelli che non si dimenticano. Lo spettatore viene rapito e, poi, immediatamente trascinato in una spirale di mistero e violenza, in cui momenti di grande recitazione fatta anche solo di silenzi e sguardi, si alternano all’azione culminante nei delitti efferati del protagonista (uno straordinario Viggo Mortensen).
Dieci anni fa David Cronenberg ha spiazzato il suo pubblico, abituato fino ad allora a un cinema più visionario, costruendo un film lineare ma non per questo meno profondo. Con un affondo nel lato oscuro dell’animo umano, il maestro canadese ha messo in scena la violenza in tutte le sue sfaccettature, da quella terrificante a quella affascinante (si pensi alla scena di sesso tra Mortensen e Maria Bello, ripugnata e al tempo stesso attratta dall’ambiguità del marito).
Ma dietro il viaggio in un dramma familiare, probabilmente Cronenberg ci ha mostrato qualcosa di più grande. A History of Violence è la metafora della storia di un’intera nazione che è nata nel sangue: e le origini violente proprio non si possono reprimere, prima o poi sono destinate a tornare a galla.


