


Padraic (Colin Farrell) e Colm (Brendan Gleeson), due dei pochi abitanti di un’isola al largo della costa irlandese, sono amici e compagni di bevute da sempre. Un giorno Colm mette improvvisamente fine al loro rapporto senza un apparente motivo, lasciando incredulo e costernato l’amico che, non accettando la decisione, prova a ricucire in ogni modo lo strappo. Ma più Padraic insiste nei suoi tentativi di riappacificazione, più Colm si arrocca nelle proprie convinzioni. E quando quest’ultimo lancia un disperato ultimatum, gli eventi finiscono per prendere pieghe sconvolgenti.
A cinque anni di distanza da Tre manifesti a Ebbing, Missouri, ambientato nella profonda provincia americana contemporanea, il 52enne sceneggiatore e regista britannico Martin McDonagh ci porta con il suo nuovo lungometraggio in un’altra periferia del mondo, ben più remota, quella dell’Irlanda degli anni ’20 del secolo scorso.
L’isola (immaginaria) di Inisherin, con le sue vallate verdeggianti e le scogliere a strapiombo su cui si infrangono le onde del mare e le malinconie dei suoi abitanti, è una terra al tempo stesso affascinante e cupa, attraente e opprimente. È un luogo in cui le case sembrano a loro volta isole e gli unici diversivi sono una piccola chiesa, il pub e il pettegolezzo. Nulla ne scalfisce la monotonia, neppure gli echi fragorosi della guerra civile che infuria dall’altra parte del mare.
McDonagh – irlandese d’origine – descrive Inisherin minuziosamente, quasi fosse un personaggio, così da farci respirare l’aria e lo spirito del microcosmo dove esplode e si consuma l’assurda disputa tra Padraic, un pastore che la sonnacchiosa routine del posto in cui è nato l’ha abbracciata, e Colm, un uomo di mezza età che d’un tratto quell’esistenza vuole ripudiarla, colpito com’è da una folgorazione che ha il sapore di una presa di coscienza nei confronti del tempo perduto e di una vita non vissuta.
Ma dietro il ritratto dell’alienazione che avvinghia la quotidianità dell’angolo più sperduto del mondo si scorge molto altro ancora. La storia di Padraic, Colm e della comunità di Inisherin può essere letta come una parabola universale sulle derive della solitudine e della noia, sulla disperazione esistenziale e sul senso dello stare al mondo, nonché sulla follia e sull’inutilità dei conflitti piccoli e grandi, personali e collettivi.
Scandito da dialoghi sapidi ed arguti che ci ricordano perché McDonagh sia uno dei migliori sceneggiatori del cinema odierno, Gli spiriti dell’isola si rivela dunque un’opera stratificata, spiazzante, non inquadrabile in un genere e, probabilmente, il film più amaro dell’autore, se è vero che persino l’umorismo nero che lo attraversa si dissolve man mano che gli eventi precipitano.
Fondamentale per la sua riuscita è anche l’apporto di un cast a dir poco ispiratissimo. Colin Farrell e Brendan Gleeson formano una coppia esplosiva come ai tempi di In Bruges (opera prima di McDonagh), Kerry Condon nel ruolo di Siobhan incarna la luce della speranza, mentre Barry Keoghan disegna un personaggio struggente nei panni di Dominic, sensibile ed inquieto “scemo del villaggio” stritolato da un padre infimo e dalla cieca indifferenza dei suoi compaesani.
Voto: 4/5
Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin), Irlanda-Gran Bretagna, 2022. Regia: Martin McDonagh. Interpreti: Colin Farrell, Brendan Gleeson, Kerry Condon, Barry Keoghan, Pat Shortt, Gary Lydon. Durata: 1h e 54’.


