


Tae-suk è un giovane che trascorre la sua esistenza intrufolandosi in abitazioni vuote, approfittando della momentanea assenza dei proprietari. Non è un ladro, né un teppista, il suo unico intento è quello di dimorare in quelle case finché è possibile e prendersene cura. Pulisce, mette in ordine, fa il bucato, annaffia le piante e, grazie alla sua straordinaria manualità, ripara qualsiasi oggetto che ha smesso di funzionare. Ogni volta, prima di andare via, si concede un selfie con una camera digitale accanto ai ritratti dei padroni di casa. Tutto ciò che Tae-suk possiede è una motocicletta e una mazza da golf, il Ferro 3 che dà il titolo al film. “Chi gioca a golf sa che la mazza n. 3 è quella meno usata”, spiega il regista sudcoreano Kim Ki-duk, “Immaginatela infilata in una costosissima borsa da golf, usata anch’essa solo di rado. In questa immagine vedo la metafora di una persona abbandonata o di una casa vuota”. La mazza di Tae-suk finisce poi per diventare un’arma quando in un’abitazione si imbatte in Sun-hwa, moglie infelice e vittima di violenze, che decide di seguire il giovane nei suoi vagabondaggi, ridando così un senso alla sua vita. Le loro anime si intrecciano e non si dividono più, anche nel momento in cui le avversità costringono i due amanti ad allontanarsi fisicamente.
Ferro 3 – La casa vuota (2004) è un’opera spiazzante, ricca di risvolti sorprendenti e impreziosita da un finale prismatico che si presta a svariate interpretazioni. È un film carico di tensione emotiva, anche se ci sono pochissime battute (i due protagonisti, in particolare, non proferiscono mai parola) e la musica fa capolino solo a sprazzi. Soprattutto, Ferro 3 incarna al meglio lo spirito di Kim Ki-duk, mina vagante del cinema mondiale, diventato regista pur non avendo frequentato accademie e senza avere una cultura cinefila, autore convinto che la settima arte sia un dialogo fatto d’immagini, esattamente come la pittura, la sua vera grande passione.
Realtà, sogno, solitudine, passione, violenza, dolcezza, amore. Tutto scorre in quest’opera ipnotica che non si può inquadrare in alcun genere e a cui, da spettatore, ci si abbandona con lievità, proprio come Sun-hwa si perde nell’abbraccio di quell’angelo custode che riempie, con il suo calore, case ed anime vuote.


