


Amapà, estremo nord del Brasile. Una piccola imbarcazione sfreccia sulle acque di un fiume, tutto intorno c’è soltanto verde. Svettano, imperiosi, gli alberi della Foresta Amazzonica. Dopo aver superato qualche ostacolo lungo il percorso, l’imbarcazione giunge a destinazione. Sulla terraferma c’è un gruppo di bambini in attesa: la cinepresa scruta i loro volti e gli occhi curiosi.
Inizia con questa sequenza potente a livello visivo il docufilm Colibrì, secondo lungometraggio di Luciano Toriello, che ho visto alla vigilia della sua uscita ufficiale in un’anteprima privata. È l’autunno del 2015 quando Pino Maiorano e Alessio Micchetti, due appassionati e volenterosi rappresentanti dell’ONG brasiliana Amigos do bem estar, partecipano a una missione per portare aiuti umanitari e allestire un presidio medico all’interno delle aree protette dell’Amapà, dove vivono le tribù indigene. Toriello ritrae le fasi salienti di questa spedizione.
Oltre a Pino e Alessio, durante il film prendono la parola alcuni rappresentanti delle tribù, che raccontano del loro modus vivendi, di una strada da costruire, della malaria che affligge i bambini, delle promesse non mantenute da chi si era proposto in passato di aiutarli. Ma più di ogni cosa a raccontare sono le immagini, i colori, le azioni, i corpi e i volti segnati dal sole brasiliano. Attraverso una regia essenziale e incisiva, Toriello non solo ti porta in quel mondo lontano, ma ti ci fa restare dentro.
Prodotto da Farfly e sostenuto dal Ministero brasiliano della Salute Indigena, Colibrì farà il suo esordio ufficiale in concorso alla 9a Mostra del Cinema Documentario Etnografico (www.etnodramma.it), dove sarà proiettato in anteprima internazionale il prossimo 4 giugno.


