DALL’INFERNO AL GRANDE SCHERMO: LA STRAORDINARIA VITA DI SALVATORE STRIANO

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Il cinema, delle volte, opera per vie misteriose. Ed ecco che una mattina mi ritrovo nel carcere della mia città, Lucera, per assistere insieme ai detenuti alla proiezione di Cesare deve morire dei fratelli Taviani. Lavori in corso, un’associazione di volontari che si prodiga per i carcerati, e il regista Luciano Toriello mi hanno voluto lì per moderare il dibattito dopo il film. I titoli di coda scorrono, le luci si accendono. Gli occhi sono tutti puntati su un uomo: Salvatore Striano, l’attore scelto dai Taviani per la parte di Bruto. Bastano pochi minuti per capire che non si parlerà di cinema. Sasà è cresciuto a Napoli, in un girone dantesco dell’inferno. È solo un bambino quando la camorra si prende la sua vita, la caduta libera è inevitabile. Arriva una condanna pesante e il carcere di Rebibbia. Ormai la sua esistenza sembra destinata al buio e, invece, nella lettura di un copione teatrale Sasà ritrova la luce. Un forza di volontà inarrestabile lo spinge a divorare libri e lo porta sul palcoscenico. Affina l’arte della recitazione a tal punto che, uscito di prigione, arriva la chiamata di Matteo Garrone che lo vuole in Gomorra.
È un fiume in piena Sasà, un vulcano che erutta parole che infiammano l’animo di chi ascolta. Oggi è un attore a tempo pieno, ma soprattutto è un uomo nuovo, un uomo “che si ama”, come ripete lui continuamente. L’incontro finisce. Gli occhi di molti detenuti brillano di speranza, qualcuno lo avvicina, sembra quasi non volersi staccare da lui. A me non resta che assistere in silenzio e riflettere: questo sì che è un “film” straordinario.

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