


Quando La donna che visse due volte (1958) uscì nelle sale, non fu immediatamente un successo e il motivo è comprensibile. Fino a quel momento Hitchcock era stato il maestro del brivido, il regista dal colpo di scena dell’ultimo minuto.
In questo film, invece, pur non mancando di inquietare lo spettatore per tutta la prima parte della narrazione, Hitch svela poco oltre la metà del racconto (attraverso un ricordo della protagonista Judy) l’imbroglio che si cela dietro la vicenda. Suspense finita? Niente affatto. A questo punto finisce il thriller classico ed inizia il thriller dell’anima. La donna che visse due volte è senz’altro intrigo e mistero, ma è soprattutto la storia di un’ossessione d’amore, a mio avviso la più grande mai vista sullo schermo. Forse una volta tanto i nostri titolisti sono riusciti a eguagliare la bellezza del titolo originale (Vertigo), perché quello italiano sottolinea bene questa svolta, questa frattura che c’è nel racconto.
Sulle indimenticabili note di Bernard Herrmann, James Stewart grazie al suo volto da uomo comune ci fa immedesimare totalmente nel delirio di Scottie, innamorato in pratica di un fantasma, un angelo dalle sembianze della fulgida Kim Novak. Chissà che dietro il cuore in tumulto di Scottie non si nascondesse quello di Hitchcock che, orfano della principessa Grace Kelly, inseguì per il resto della sua carriera attrici che potessero in qualche modo assomigliare alla sua bionda insostituibile musa.


