A CIAMBRA: I ROM DI JONAS CARPIGNANO E QUEL SOGNO CHIAMATO OSCAR

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Con la proiezione al Cinema Italian Style di Los Angeles (16-21 novembre 2017), è cominciata l’avventura americana di A Ciambra, il film scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar 2018. Già, Oscar… Una parola dorata che in certi casi riesce ad avere il potere di una bacchetta magica: grazie a questa designazione, l’opera seconda del trentatreenne Jonas Carpignano – che vanta come produttore esecutivo nientemeno che Martin Scorsese – ha allungato la sua permanenza nelle sale italiane (era uscito lo scorso 31 agosto), evitando di passare inosservato come succede a tanti buoni prodotti del cinema d’autore nostrano.
Tutto è iniziato nel lontano 2011, in seguito al furto dell’auto subito da Carpignano a Gioia Tauro, in Calabria. Lì, quando sparisce una macchina, è consuetudine andare a parlare con gli zingari. Una volta entrato nella Ciambra, la comunità rom del posto, Carpignano non ne è più uscito, in tutti i sensi. Ha osservato, studiato, assaporato cultura, abitudini, brutture, emozioni della Ciambra per molto tempo, ed ha scavato in quel mondo fino a partorire un film capace di portarci in uno di quei luoghi del nostro Paese in cui normalmente evitiamo di guardare, come a volerne negare perfino l’esistenza. Carpignano ci fa restare lì per due ore, sempre in tensione, mostrando senza mai giudicare, accusare o simpatizzare.
Ma questo film in cui convivono con armonia documentario e finzione, non è soltanto descrizione accurata di un microcosmo. A Ciambra si rivela anche un intelligente racconto di formazione attraverso il ritratto del suo protagonista (interpretato dal bravissimo quattordicenne Pio Amato), un adolescente costretto a delinquere per portare il pane a casa quando fratello e padre vengono arrestati. Se è vero che da un lato Pio sogna di emulare gli adulti malavitosi un po’ come faceva il giovane Henry Hill di Quei bravi ragazzi, dall’altro è poco più che un bambino obbligato a crescere in fretta. Lo tocchiamo con mano quando Carpignano lo ritrae nei momenti di gioco con i coetanei, nell’impaccio di fronte ai segnali di interesse femminile, nella descrizione delle sue paure e, soprattutto, nel rapporto d’amicizia sincero con Avyva, giovane immigrato di colore: in quella corsa in moto e in quelle braccia che stringono l’amico, c’è un’umanità a cui è davvero impossibile restare insensibili.

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