


Il 3 aprile 1968, l’allora quarantenne Stanley Kubrick presentava al pubblico uno dei suoi sommi capolavori, dando uno scossone irreversibile alla storia del cinema. 2001: Odissea nello spazio ridisegnava non solo i confini della fantascienza, ma della settima arte in generale. Scritto dal regista insieme al geniale Sir Arthur C. Clarke, il film suscitò reazioni contrastanti al suo debutto e solo il tempo riuscì a far comprendere in profondità la grandezza e la complessità di quest’opera monumentale. Perché, a dispetto di quello che suggerisce il titolo, l’ottavo lungometraggio di Kubrick non è semplicemente un avventuroso e spettacolare viaggio nello spazio, ma una riflessione sulle origini, l’evoluzione e il destino dell’essere umano, in cui giocano un ruolo fondamentale le suggestioni filosofiche e la straordinaria potenza delle immagini (lunghe parti del film sono totalmente prive di dialoghi).
L’alba dell’uomo e il monolito nero, la base lunare e la grande stazione spaziale rotante, il supercomputer ribelle HAL 9000 e la porta delle stelle, il feto cosmico che fluttua nello spazio e le travolgenti note di Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, ci ricordano quanto 2001: Odissea nello spazio sia un’opera capace di penetrare negli occhi, nella mente e nell’anima, instillando mille interrogativi a cui ciascuno di noi può dare le proprie risposte. “Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico del film. Io ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio”, disse a suo tempo lo stesso Kubrick, motivando l’intento del suo lavoro. Obiettivo centrato in pieno: dopo 50 anni siamo ancora qui a riammirare il suo film più ambizioso ed enigmatico, con gli stessi occhi attoniti e assetati di conoscenza dell’astronauta Bowman in quell’ipnotico, psichedelico, impareggiabile finale.


